RICERCA E SPERIMENTAZIONE
DI ABRAXA TEATRO
a cura di Clelia Falletti
CLELIA FALLETTI: “Nel congedare questo libro penso a Fabrizio Cruciani. Aveva scelto il teatro come campo di ricerca storica e di verifica e sperimentazione […] Come docente universitario ha lavorato lontano da Roma […] tornando a casa era importante per lui l’esistenza di questo piccolo fortilizio nella metropoli, l’Abraxa Teatro. Erano necessari l’uno all’altro. […] l’esperienza fatta da Fabrizio Cruciani con l’Abraxa deve essere stata un lievito e una conferma. l’Abraxa Teatro è stato il luogo che ha acceso e incarnato a livello quotidiano quella sua profonda convinzione e venato il suo ultimo libro.
E’ curioso come in questo libro ricorra sovrana un’idea, calda intima e affettuosa famigliare accogliente, di casa per parlare di un luogo e di un gruppo di attività e di ricerca teatrali arroccati a Villa Flora nel cuore di Roma – Abraxa Teatro. […] Nel congedare questo libro levo il calice a Fabrizio”.
EUGENIO BARBA: “Caro Emilio, cari compagni di Abraxa Teatro ricordo le volte che sono venuto in visita da voi […] ognuno di noi, preso a sé, vive in una parentesi, e deve difenderla per non lasciarla cancellare dal flusso che la circonda. Ma quando le parentesi si collegano, sormontando le differenze dei loro contesti, formano un discorso parallelo, un dialogo multilingue in cui ci si intende e non si è soli. Formano un’orbita. Di questo vivere come una parentesi in un contesto che ci minaccia voi non siete soltanto un esempio. Ne siete anche una metafora materializzata nel cuore della topografia urbana. […] Il vostro compleanno è il segno d’una resistenza. E’ giusto che lo festeggiate. E’ giusto che senza falsa modestia, lo proponiate implicitamente ad esempio, con fierezza.”
EMILIO GENAZZINI: “nel 1988 durante il mio “viaggio di Serendip”, in Brasile, ottenni in via eccezionale di partecipare ad alcuni eventi di candomblé. Ascoltai per tutta la notte la conga che sosteneva instancabilmente la danza iniziatica dei partecipanti, la udii ancora in successive cerimonie: quello strumento, con quei ritmi ripetitivi, poteva supportare anche le nostre improvvisazioni, in più poteva diventare la mia voce, quella del regista, che scandiva il momento che precede l’improvvisazione. Lo assunsi come condizione basilare per quello che definii “training di passaggio“.
[…] La mia ricerca, dunque, è stata impostata sul fatto di trovare la giusta maniera per essere il personaggio e non per interpretarlo; la scena, il palcoscenico, la rappresentazione sono finzioni sceniche. La mia ricerca è usare la finzione scenica per raggiungere un’altra verità o un atro tipo di autenticità.
Essere il personaggio può equivalere alla ricerca di un’utopia. E’ come dire che le possibilità dell’essere umano sono infinite, però lo diciamo non per raggiungere quell’infinito ma per sviluppare in noi delle capacità che se non partissimo dall’utopia delle illimitate possibilità potremmo non sviluppare”
MASSIMO GRIPPA: “In Abraxa Teatro una lentezza apparente, che contrasta con la velocità con cui devi prendere decisioni o con cui la vita ti scorre sopra, non sempre è una strategia di vita ma una necessità di acquisire informazioni, metabolizzare avvenimenti esterni e interni […]. La strategia della lumaca, o l’elogio della lentezza, permette di aprire le maglie d’un dettaglio all’interno di una ragnatela inestricabile, come spesso ci capita di dover fare, e lì ci consente di inserire la nostra idea artistica, il nostro obiettivo di lavoro. […]
1988: l’anno spartiacque. In un sottile equilibrio tra coscienza e incoscienza, decidemmo di scommettere sul nostro futuro, di metterci in gioco completamente; lavoravamo tutti a tempo pieno col tipico entusiasmo giovanile. Venivamo da cinque anni d’intenso lavoro teatrale, in cui Abraxa Teatro, con la medesima formazione, aveva portato i suoi componenti a ottimi risultati, ma anche a crearsi delle aspettative di affermazione che non arrivarono e la nostra ricerca interna aveva bisogno di nuovi stimoli per fare un salto in avanti.
Affrontammo con grande coraggio un anno di separazione, consapevoli che poteva accadere qualsiasi cosa. L’accordo fu di lavorare individuamente, di fare un viaggio in un paese straniero e di autosostenerci. […] Una delle regole del viaggio fu di tenere come punto di riferimento la creazione di uno spettacolo, per cui l’obiettivo finale doveva darlo il regista. Il compito che mi diede fu tra i più ardui e difficili (come mi apparve al primo impatto): dovevo raggiungere uno stato straniero mai sentito prima: la Namibia, o Africa del Sud-Ovest (così la forza d’occupazione sudafricana chiamava quel paese); in particolare dovevo soggiornare nel deserto più antico del mondo e in quel deserto svolgere un lavoro teatrale.”
FRANCESCA TRANFO: “Nella sala, a un certo punto, sembra di sentire il rumore della pioggia, o forse è un bastone della pioggia? In realtà è lo scrosciare di sussurri, di respiri, di sibilanti e di labiali che si rincorrono da un attore all’altro intenti a sperimentare le proprie potenzialità vocali: suoni piccoli seguiti da pernacchie, brusii, tuoni di vocali e consonanti, vibrati cupi interrotti da suoni prolungati, come di masticazioni o di un assaporare gustoso delle labbra, della lingua a contatto col palato e che scorre sui denti fino a mostrarsi fuori senza ritegno e poi, al contrario, da fuori a dentro.
Suoni armonici, ironici, comici, unici. […]
Nelle pause tra un esercizio e l’altro, tra un lavoro vocale ed uno fisico, tra un agire e un parlare si sente il silenzio che proviene da fuori della finestra, finestra aperta ad un pomeriggio di sole. E’ un silenzio sottolineato dal dialogo di due uccellini che forse stanno commentando ciò che avviene qui dentro. Il miracolo teatrale di trasformare l’essere umano in infinite essenze di vita.”
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